La vita invisibile di Euridice Gusmao

La condizione femminile nel Brasile degli anni '50 in un melodramma che finisce per sembrare un film di Matarazzo.

di EMILIANO BAGLIO 04/10/2019 ARTE E SPETTACOLO
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È difficile la vita per le donne nella Rio de Janeiro degli anni ’50.

Lo impareranno a loro spese Euridice (Carol Duarte) e sua sorella Guida (Julia Stockler), che il destino separerà senza che le due si rincontrino mai più.

 

Karim Aïnouz con Euridice Gusmao realizza un film di e sulle donne e nello specifico sulla loro condizione nel Brasile degli anni ’50 senza che si abbia l’impressione che con ciò voglia volgere lo sguardo al presente.

Tutte le donne di questo lungometraggio sono vittime del potere maschile e maschilista, a cominciare dalla madre delle due ragazze, succube di un marito padre/padrone che non si farà scrupoli nel cacciare Guida, quando questa tornerà sola ed incinta, né nel mentire alle due figlie con lo scopo di non farle più incontrare.

Lo stesso dicasi di Guida che si ritroverà a fare i conti con la sua condizione di ragazza madre.

Troverà conforto nelle braccia di Filomena (Bárbara Santos), ex prostituta che l’accoglierà come una figlia.

Grazie a lei Guida scoprirà che la famiglia è quella che ti crei tramite i legami d’affetto e non quella del sangue.

Il personaggio di Filomena però è importante anche per il discorso sulla riappropriazione del proprio corpo di cui è portatrice.

Sarà proprio lei, dinnanzi alle continue delusioni amorose dell’amica, a suggerirle che in fondo si può fare a meno degli uomini e che si può benissimo vivere la propria sessualità da sole; la masturbazione insomma come atto quasi rivoluzionario di autodeterminazione femminile rispetto al potere patriarcale.

Proprio il corpo è uno degli altri centri vitali di quest’opera soprattutto per quanto riguarda le gravidanze non desiderate delle due sorelle ed il rapporto tra Euridice ed il marito Antenor (Gregorio Duvivier).

Euridice infatti si troverà costretta a sposare il figlio del proprietario della farina che fornisce il forno paterno.

Ben presto il matrimonio diventerà una gabbia che impedirà alla donna di realizzare il suo sogno di diventare pianista.

Tuttavia il suo rapporto col marito è molto più complesso di quanto appaia, apparentemente egli pare sinceramente innamorato della moglie ma spesso appaiono delle crepe, soprattutto nei suoi scatti d’ira quando quest’ultima prova a reclamare indipendenza e libertà.

Anche i loro rapporti sessuali sono ambivalenti, se la prima notte di nozze può apparire quasi come uno stupro è anche vero che Euridice sembra finalmente prendere coscienza del piacere legato al sesso e più tardi sembra utilizzarlo come strumento di seduzione/potere per (ri)mettere al proprio posto il maschio.

Solo alla fine il velo verrà completamente tolto lasciando che lo spettatore ed Euridice scoprano quanto in realtà Antenor fosse complice nel piano perverso messo in atto per non far rincontrare le due sorelle.

Eppure anche in quel momento Euridice, oramai anziana, sembra incapace di provare rancore.

Questo atto di accusa mosso dal regista si muove all’interno della struttura tipica del melodramma.

Karim Aïnouz è riuscito nell’impresa di ricreare alla perfezione l’atmosfera dell’epoca storica in cui si svolge la vicenda.

Dalla fotografia e dai colori pastello, sino agli abiti e alle scenografie la ricostruzione è praticamente perfetta.

In questo mondo da cartolina si agitano le vicende di due donne che entreranno in contatto con ambienti diversi, la media borghesia di Euridice si contrappone al sottoproletariato di Guida e alle case decorose fanno da contraltare le abitazioni modeste o le stanze fatiscenti e puzzolenti dove vivrà Guida.

Il punto è che il melodramma per come lo intende Aïnouz è quello più popolare, vicino al romanzo d’appendice (purtroppo non conosciamo la fonte letteraria da cui è tratto il film).

Così in Euridice Gusmao non manca nulla; dalle gravidanze indesiderate alle ragazze madri cacciate via di casa, dalle romantiche fughe d’amore che finiscono in tragedia alle morti sofferte delle persone care.

Tutto l’arsenale del genere, comprese le rivelazioni e le investigazioni per scoprire la verità.

Il problema è che, a lungo andare, tutto ciò diventa ridondante e da un certo momento in poi il film si ripete indugiando in una retorica didascalica fastidiosa.

Un taglio deciso avrebbe giovato al film che si sarebbe potuto concludere molto prima ed avrebbe avuto lo stesso effetto se non maggiore.

Invece Aïnouz non ci fa mancare proprio nulla compreso un finale francamente insostenibile in cui il cerchio si chiude.

Solo che a quel punto questa finissima ricostruzione d’epoca che suona come un atto di accusa si è trasformato in un film di Raffello Matarazzo.

 

EMILIANO BAGLIO


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